Storie di vita
Oltre l’era dei “rubascale”
Il “rubascale”, così chiamava, mio padre, quella cosa che, quando ero in prima elementare, hanno messo per portarmi in aula. Finalmente non mi doveva più portare a spalla su per le scale; finalmente potevo portare al primo piano anche la mia carrozzella elettrica che mi permetteva di muovermi in autonomia. Un giorno gli ho detto: “si chiama montascale; ma perché lo chiami rubascale?” “Perché occupa tutto lo spazio delle scale, è lento e -ha aggiunto- quando è in movimento i tuoi compagni non possono salire.” Già, era lento davvero. Lo sapevo bene io che per raggiungere il bagno per disabili, che avevano deciso di allestire al piano terra, e ritornare in aula, ci mettevo quasi tutta la ricreazione. Era ogni giorno un dilemma: rinuncio a giocare con i miei amici o rinuncio a un pezzo della lezione?
A volte si pecca di abilismo per mancanza di conoscenza
Museo di storia naturale, Vienna, 2012
Il mio essere uno storico mi porta spesso per musei e devo dire che negli ultimi anni l’agibilità degli accessi è migliorata, ma, nonostante ciò, il problema della fruibilità delle esposizioni è restato pressoché inalterato. Gli oggetti esposti nelle teche, come le didascalie che li inquadrano, restano per me non visibili. Le esposizioni sono ancora troppo spesso pensate per una persona deambulante, che vede e legge dall’alto del suo essere in piedi.
Dieci anni di attesa
Nonostante il mio essere in carrozzella fin dalla scuola dell’infanzia, quando sono giunto in prima elementare nulla era predisposto. La richiesta della mia famiglia di far beneficiare la mia classe di una delle aule disponibili al piano terra, dove era ubicato anche il servizio igienico per disabili, ha trovato accoglienza …solo 10 anni dopo, al Liceo. Nel mezzo ogni sorta di disavventura.
Alla Scuola Media mi sono confrontato per 4 anni con un vecchio montascale particolarmente lento, che si bloccava, senza preavviso, con pendenze a volte improponibili. Mio padre, puntualmente chiamato dalla scuola, accorreva per spostarmi a braccia al piano terra, a volte abbandonando sulle scale, anche oltre la singola giornata, la carrozzella e la mia autonomia.
La situazione di pericolo e di disagio mi ha poi indotto a limitare le occasioni di rischio, scegliendo di rinunciare sistematicamente alle ricreazioni…
Scuola media Losone, 2 settembre 2005, ore 11.42
Piccoli gesti dalle grandi conseguenze
La mia disabilità ha un potere nascosto. Quello di restringere lo spazio (sono sempre meno i luoghi in cui posso andare) e di dilatare il tempo (ci metto sempre più tempo per fare qualsiasi cosa). Anche quando ero bambino e ancora camminavo sono sempre stato più lento di tutti gli altri. Ricordo i giochi di acchiappino che i miei compagni della scuola dell’infanzia facevano durante l’uscita in giardino e nel salone, ricordo il non poter andare sullo scivolo e sulle altalene, ricordo la frustrazione…
Ricordo anche, un po’ più grandicello, alle elementari, le lezioni di attività creative in cui, con traforo, colla, forbici e ogni tipo di materiale si costruivano i più svariati oggetti. Attività complessa per un allievo che di fatto non poteva quasi più utilizzare le mani. Per contro, troppo semplice per l’accompagnatore, chiamato, di fatto, a sostituirlo…
Scuola elementare, Losone, 2003
Ricordo anche, alla scuola media, l’incremento delle misure dispensative: a quella di educazione fisica si è aggiunta quella, non richiesta, da canto e musica…
In attesa di parchi giochi realmente accessibili o di strumentazioni avveniristiche, una scuola di tutti e per tutti può farsi accogliente anche attraverso piccoli gesti, proponendo attività o giochi differenziati, in cui le abilità centrali ed essenziali non siano sempre fuori portata degli allievi con disabilità.
7x1 in 4 anni
Nei miei ricordi, soprattutto quelli del periodo liceale, il reperimento e reclutamento di personale di accompagnamento è stata una delle fonti di maggior preoccupazione. Vi era una grande discontinuità di persone, con defezioni e sostituzioni anche in corso d’anno. Ricordo infatti non meno di 7 persone su 4 anni.
Il ruolo, a detta degli operatori, era poco attrattivo, in quanto incarico annuale retribuito ad ore. Ricordo di quegli anni la fatica ad adattarsi a figure sempre diverse, con formazioni diverse e non sempre compatibili con i miei bisogni, con competenze diverse, con personalità a volte anche molto distanti fra loro. La situazione era poi complicata da tempi di lavoro sempre più frammentati, con alternanza, sullo stesso periodo, di più operatori.
Lo studio per lo studio
Al termine della formazione accademica in storia ho fatto un corso di Public History, pensandolo esplicitamente come passaggio al mondo del lavoro. La conoscenza delle tecniche di diffusione del discorso storico permette infatti di operare al di fuori del sistema accademico, ampliando di molto le possibilità lavorative. L’Assicurazione Invalidità ne ha però rifiutato, nel quadro della prima formazione professionale, il finanziamento, perché riteneva che nessuna formazione avrebbe potuto modificare il mio tasso di invalidità. Ha quindi proceduto direttamente all’attribuzione della rendita, senza offrire alcuna alternativa progettuale…
Troppo stanco, per ricominciare la lotta, non ho fatto obiezioni. Oggi mi resta la soddisfazione di aver completato comunque quella formazione con le sole forze mie e della mia famiglia, ma mi resta anche l’amarezza di costatare quanto lentamente, nel nostro Cantone, evolvano le cose. Ricordo infatti quando, per poter accedere al liceo, ho dovuto superare la resistenza di chi riteneva impossibile con la mia disabilità affrontare quel piano di studi. Ricordo anche, ogni anno, la richiesta di esibire le valutazioni ottenute, per dimostrare all’Assicurazione Invalidità la mia capacità di continuare la formazione scelta.
Ci sono, ma non so per quanto
Nella mia esperienza il reperimento e il reclutamento di personale di cura è da sempre una delle fonti di maggior preoccupazione. Vi è, nella mia vita, una grande discontinuità di persone, con defezioni e sostituzioni pressoché continue. Non ricordo più infatti quanti professionisti (e non) si sono succeduti nel prestarmi cure che, implicando una certa intimità, richiederebbero una relazione di fiducia, che solo il tempo può garantire. Evidente il conseguente stato di perenne disagio e di incertezza…
L’assillo del domani
Nella mia esperienza la mia famiglia è condizione imprescindibile di quel tasso di autonomia che le mie disabilità possono concedermi. È lei che nel concreto garantisce ed ha sempre garantito, senza soluzione di continuità nella transizione dalla vita infantile a quella adulta, la quotidianità di un’assistenza che risulta non più che interpuntata da interventi esterni.
Le età della vita sono però almeno tre. E mentre io avanzo nell’età adulta i miei genitori si incamminano verso la terza età.
In assenza di una famiglia allargata, a cui poter far ricorso, l’assillo di un’assistenza esterna capace di realmente concedermi la permanenza a domicilio e l’autodeterminazione nelle mie scelte di vita appare più che legittima…
Paga due e prendi uno
Fra le cose che, in quanto persona con disabilità, fatico maggiormente ad accettare e comprendere vi sono le difficoltà aggiuntive, assolutamente non necessarie, che si frappongono fra me e la piena fruizione dei beni culturali e delle occasioni di vita sociale.
Recarsi al cinema o al teatro, ad un concerto o in un museo, per me ha sempre voluto dire districarmi fra accessi tortuosi o ostruiti, servizi discosti, mancanti o diversamente utilizzati, per poi raggiungere posti non sempre ottimali, in prima fila o eccessivamente laterali, di fronte a parapetti alti che limitano la visione, o in spazi pensati soprattutto per far si che l’eventuale carrozzella non sia d’intralcio agli altri.
Quello che però ogni volta vivo con un senso di ingiustizia sempre rinnovato è l’essere costretto a pagare due biglietti, anche se chi mi accompagna, e del quale non posso fare a meno, non lo fa per suo piacere, ma per lavoro.